
Lo Scalco alla Moderna di Antonio Latini da Fabriano
Un viaggio nel Trionfo dei Sapori e nell’Evoluzione della Cucina Italiana con un Pioniere del Gusto tra Barocco e Modernità.
Nel vasto panorama della letteratura gastronomica italiana, emerge con singolare splendore l’opera di Antonio Latini da Fabriano, “Lo Scalco alla Moderna”. Questo prezioso trattato, concepito tra il 1692 e il 1694, si erge quale testimonianza vivida di un’epoca in cui l’arte culinaria si intrecciava indissolubilmente con le più raffinate cerimonie di corte.
Antonio Latini (1642–1696), maestro nell’arte del ricevimento e della scalcheria, trascorse la sua esistenza tra le corti di Roma e dell’Italia centrale, per poi approdare a Napoli, all’epoca fulgida capitale del più vasto stato italiano. In questa città, crogiolo di culture e sapori, Latini raffinò la sua arte al servizio delle più illustri casate e dei loro prestigiosi ospiti.
L’opera culinaria di Latini si presenta come un’imponente raccolta di quasi novecento pagine, suddivisa in due tomi pubblicati a distanza di un biennio.

Il primo volume, più corposo, si concentra sulla cucina e sull’arte dell’intrattenimento, con particolare enfasi sui piatti a base di carne. Non sorprende questa scelta, dato che la carne, o cucina grassa, con la sua varietà, il suo costo elevato e il suo legame storico con la caccia, era tradizionalmente considerata il cibo dell’élite.
Il secondo tomo, più snello, affronta invece la “cucina magra”, essenziale per i periodi di astinenza imposti dalla tradizione cattolica, come la Quaresima, durante i quali era vietato il consumo di carne. Nonostante tali restrizioni, l’alta società dell’epoca si aspettava comunque di poter gustare pasti raffinati e di offrire banchetti memorabili ai propri ospiti.
“Lo Scalco alla Moderna” non è un mero ricettario, bensì compendio enciclopedico dell’arte conviviale del suo tempo. Il titolo stesso, nella sua barocca prolissità, ne svela l’ampiezza d’intenti: “Il Maestro di Cerimonie Moderno, ovvero l’Arte di Preparare Banchetti Bene, con le Regole più Scelte di Scalcheria, Insegnate e Applicate a Beneficio dei Professionisti e di Altri Studiosi”.
Il valore di quest’opera va ben oltre il semplice ambito culinario. Il lavoro di Latini è stato a lungo conosciuto dagli storici della cucina principalmente perché è la prima pubblicazione a documentare l’uso dei pomodori nelle ricette, con eminenti ricercatori italiani che vi hanno scorto, quella che sarebbe diventata l’iconica “salsa al pomodoro” la stessa che con qualche raffinato aggiustamento, avrebbe tracciato un solco profondo nel fertile terreno della cucina italiana, germogliando poi in un’imponente industria conserviera destinata a conquistare i palati di tutto il mondo.
Per i più curiosi ecco qui la ricetta: “Piglierai una mezza dozzena di Pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra le brage, à brustolare, e dopò che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v’aggiungerai Cipolle tritate minute, à discretione, Peparolo [peperoncino] pure tritato minuto, Serpollo, ò Piperna, in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accommoderai con un po’ di Sale, Oglio, & Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro”.

Latini fu pioniere anche nell’impiego di un altro ortaggio giunto dal Nuovo Mondo: il peperone, che utilizza per insaporire alcune salse.

Nel secondo volume del suo trattato, riservato interamente alle «vivande di magro», Antonio Latini sembra precorrere una tendenza che emergerà solo nella seconda metà del Settecento, e cioè la sostituzione delle spezie orientali con i profumi dell’orto.
Al Latini, in ambito meramente culinario, si riconosce l’introduzione di tecniche di conservazione, come quella per la preparazione delle marmellate e anche il ruolo di precursore della cucina partenopea con i capitoletti sui diversi maccaroni, lasagne e gnocchetti e sui frutti di mare. Nella sua opera si trova inoltre la prima ricetta a stampa della celeberrima pastiera napoletana, seppure in una versione ancora primitiva (sono ben otto oncie di parmiggiano grattato), rispetto a quella che sarà codificata da Ippolito Cavalcanti nel secolo successivo.

Latini ha anche il merito di aver trascritto la ricetta dei sorbetti che egli offriva regolarmente nei banchetti nobiliari. Tra i suoi gelati e sorbetti, spicca il sorbetto al limone, la cui preparazione richiede zucchero, sale, limone e ‘neve’. Sebbene i sorbetti siano originari della Sicilia, fu Napoli a diventarne la capitale tra la fine del Seicento e il Settecento. I visitatori stranieri restavano stupefatti nel constatare che a Napoli tutti consumavano sorbetti, persino in chiesa.
Gli studiosi, negli anni, hanno riconosciuto a Latini numerosi meriti di portata sempre più ampia, tanto da considerare il suo trattato un momento di cruciale di transizione nella storia della gastronomia europea. Pur mantenendo l’opulenza tipica della cucina cortese italiana, Latini anticipa quella rivoluzione che, di lì a poco, avrebbe visto il trionfo dello stile francese. Grazie anche al Latini, questa transizione ci appare più graduale e sfumata di quanto spesso descritta nelle ricostruzioni storiche.
L’approccio barocco si caratterizzava per la sua complessità e opulenza, con piatti elaborati che mescolavano numerosi ingredienti e sapori, spesso combinando dolce e salato. Le tecniche di cottura miravano a trasformare radicalmente l’aspetto e il sapore naturale degli ingredienti. Questa cucina faceva ampio uso di spezie costose ed esotiche, mirando a stupire i commensali con presentazioni sontuose e spettacolari. I pasti erano strutturati in numerosi servizi, ciascuno composto da molti piatti serviti contemporaneamente. La cucina del barocco possedeva un approccio cosmopolita, che incorporava elementi di tradizioni diverse come quella araba e spagnola.
La nuova cucina francese emergente si orientava verso la semplicità e la raffinatezza. Essa poneva l’accento sul mettere in risalto il sapore naturale dell’ingrediente principale di ogni piatto, esaltando le qualità intrinseche degli ingredienti, riducendo l’uso di spezie e separando più nettamente i sapori dolci da quelli salati. Le presentazioni diventavano più eleganti e sottili, mentre la struttura del pasto assumeva una forma più chiara e ordinata. Questa nuova filosofia culinaria privilegiava ingredienti locali e regionali, abbandonando gradualmente la preferenza per quelli costosi ed esotici, con un focus più marcato sulle tradizioni culinarie francesi. Si assisteva anche a un cambiamento nell’uso delle salse: da condimenti complessi e abbondanti si passava a preparazioni più leggere, pensate per complementare piuttosto che mascherare i sapori degli alimenti. Anche l’approccio alla salute e alla nutrizione stava evolvendo: dalla teoria umorale antica si muovevano i primi passi verso una comprensione più moderna della digestione e del valore nutritivo dei cibi.
Nelle pagine de “Lo Scalco alla Moderna” si respira ancora l’aria del Barocco, con le sue sculture di zucchero dorate e i suoi trionfi alimentari.



Eppure, vi si scorge già il germe di una nuova sensibilità: l’attenzione agli ingredienti locali, il tentativo di sostituire le spezie orientali con gli aromi mediterranei (prezzemolo, basilico, maggiorana, mentuccia), la fusione di stili culinari diversi, persino una precoce consapevolezza del legame tra alimentazione e salute.
Di particolare interesse è l’atlante delle specialità enogastronomiche del Meridione, che Latini ci offre in appendice al primo volume. È un affresco vivido di sapori e tradizioni che, in larga misura, sono giunti intatti fino ai nostri giorni: gli ortaggi di Chiaia, la frutta di Posillipo, i cocomeri di Orta, le olive di Gaeta, l’olio d’oliva della Calabria e del Salento, lo zafferano dell’Aquila, i capponi di Nocera, gli ovini del barese, i pesci di mare del napoletano e quelli d’acqua dolce di Avellino, le ostriche di Taranto, le soppressate di Nola, i prosciutti abruzzesi e di Campobasso, i caciocavalli di Laterza, i confetti di Sulmona, il torrone di Aversa e di Benevento.

Infine, non si può non accennare all’autobiografia che Latini ci ha lasciato, unica nel suo genere nella storia della gastronomia. In essa, l’autore si presenta come moderno self-made man, orgoglioso del proprio percorso e consapevole del valore della propria esperienza. Attraverso le sue parole, ci giunge l’eco di un’epoca lontana, con le sue durezze e le sue gioie, le sue contraddizioni e le sue meraviglie.
La vita di Latini: un’epopea alla Forrest Gump
La vicenda terrena del nostro Antonio Latini si rivela, per molti aspetti, sorella di quella dell’immortale Forrest Gump, personaggio cinematografico ormai assurto a icona della cultura popolare. Entrambe le esistenze, pur segnate da ostacoli che parevano insormontabili — svantaggi socioeconomici per il primo, limitazioni cognitive e fisiche per il secondo — si dipanano come un arazzo intessuto di incontri con i più illustri personaggi della loro epoca, e costellato di trionfi che sfidano ogni pronostico avverso.
Come il suo alter ego cinematografico, il nostro Antonio sembra danzare tra gli eventi della storia, sfiorando tragedie e fortune con un’innata grazia, sorretto da un’indole bonaria e da una sorte benevola.

Antonio Latini nacque il 26 maggio 1642 a Collamato, nello Stato Pontificio, in un’epoca segnata da profondi conflitti che coinvolgevano il Papato e altri stati italiani. Questo periodo turbolento portò con sé una serie di calamità: carestie, tasse insostenibili, scontri armati, raccolti scarsi ed epidemie che colpirono duramente la popolazione, in particolare i capofamiglia.

La vita di Latini prese una svolta drammatica quando, ancora giovane, perse entrambi i genitori. Lui e suo fratello Bartolomeo si ritrovarono in una condizione di estrema povertà, costretti a mendicare di porta in porta per sopravvivere. Nonostante le avversità, Antonio trovò conforto e aiuto da diverse anime pietose: parenti, vedove, militari in congedo e persino una vecchina che gli offriva riparo durante le nevicate.
Per un breve periodo, Antonio trovò stabilità a Bassano, dove trascorse sei mesi badando alle pecore. Tuttavia, un’esperienza terrificante con i lupi, che sbranarono due pecore, lo spinse a fuggire. Le sue peregrinazioni lo portarono a Matelica, dove fu accolto da un tintore amico di suo padre. Questa sistemazione, però, terminò a causa di complicazioni nella convivenza con le figlie del tintore.

La vita di strada divenne la sua realtà quotidiana, dormendo sui banchi sotto le logge della Piazza del Mercato, esposto alle intemperie. Una caduta notturna gli lasciò una cicatrice al mento che portò per tutta la vita. Nonostante le difficoltà, continuò a ricevere aiuto da persone caritatevoli, tra cui un cappellaio zoppo, il canonico Deodato e l’artigiano Campamante.
La fortuna di Antonio iniziò a cambiare quando suo fratello Mario gli donò alcuni paoli dalla vendita di una proprietà di famiglia. Poco dopo, fu accolto in casa dei Razzanti, dove assunse responsabilità crescenti, occupandosi della vendita del vino e della gestione del denaro. Fu durante questo periodo che imparò a leggere e scrivere, grazie agli insegnamenti di un prete.

Nel 1658, con trenta paoli risparmiati e lettere di raccomandazione, Antonio partì per Roma. Il viaggio fu difficile, ma ricevette aiuto da due Padri Cappuccini e un anziano perugino. A Roma, un incontro fortuito lo portò al palazzo del Cardinale Antonio Barberini, dove iniziò a lavorare in cucina. La sua dedizione e abilità lo fecero notare, e fu presto promosso ad aiutante di camera del Cardinale.
Durante il suo servizio presso il Cardinale, Antonio apprese l’arte dello scalco e ricevette addestramento militare. Partecipò a eventi importanti, come il sontuoso banchetto offerto alla Regina di Svezia. Tuttavia, dopo alcuni anni di servizio, fu inaspettatamente licenziato quando il Cardinale partì per la Francia.

La carriera di Latini continuò a evolversi attraverso vari incarichi. Lavorò brevemente alla corte del Contestabile Colonna, poi come Commissario e Cavalcante nello Stato Ecclesiastico. Fu persino nominato governatore temporaneo di tre terre: Merolo, Supino e Sgurgola.

Le sue peregrinazioni lo portarono a Macerata, dove lavorò per nobili locali, e poi a Mirandola, dove si distinse come scalco e schermidore. La sua fama crebbe, attirando molti giovani nobili come discepoli nella scherma.

Nel 1675, Latini tornò a Roma per il Giubileo. Qui svolse vari lavori, incluso quello di soldato “piazza morta” e insegnante di scherma. Servì personaggi illustri come Pietro Grimani, il Vescovo di Sora, Monsignor Del Giudice e il figlio del Duca Altemps.

Il 1678 segnò l’inizio di un periodo significativo nella carriera di Latini, quando entrò al servizio del Cardinale Rossetti a Faenza. Nonostante la reputazione del Cardinale come datore di lavoro esigente, Latini riuscì a guadagnarsi la sua fiducia e ammirazione. Questo periodo durò circa tre anni, fino alla morte del Cardinale.

L’apice della carriera di Latini giunse nel 1682, quando si trasferì a Napoli come scalco del Regente Cariglio, primo ministro del Regno. A Napoli, Latini organizzò sontuosi banchetti per l’alta società, ospitando viceré e nobili. La sua fama crebbe al punto che nessun evento importante nella città o nel Regno si svolgeva senza la sua presenza.

Il successo di Latini fu riconosciuto ufficialmente nel 1693, quando il Cardinale Caraffa lo nominò Cavaliere Aurato e Conte Lateranense. Nel 1695, ottenne un vitalizio a Napoli, coronando una carriera di successo.

Purtroppo, la vita di Latini si concluse prematuramente. Si ammalò gravemente poco dopo aver ottenuto il vitalizio e morì il 12 gennaio 1696, all’età di 52 anni. Fu sepolto con onore, compianto da molti. Le sue opere pubblicate rimangono come testimonianza della sua vita straordinaria e delle sue eccezionali abilità nell’arte culinaria e nell’organizzazione di eventi di alto livello.

La vita di Antonio Latini, da umili origini a rispettato scalco e nobile, è un esempio di come talento, dedizione e una serie di fortunate circostanze possano portare al successo, nonostante le avversità iniziali.
In conclusione, “Lo Scalco alla Moderna” si configura non solo come trattato fondamentale dell’arte della scalcheria, ma anche come suo canto del cigno. Le fantasie barocche qui descritte con tanta maestria sarebbero presto state soppiantate dalla misurata classicità dei modelli francesi. Eppure, nelle pagine di Latini sopravvive lo spirito di un’epoca, l’essenza di una convivialità opulenta e fastosa che, seppur tramontata, continua ad affascinare e a nutrire l’immaginario gastronomico italiano.
